VIVERE E MORIRE IN CARCERE: uno sguardo alla realtà carceraria italiana

di Alessia Valente (4 B S.S.S.)

Il giorno 30 ottobre alcune classi del nostro istituto si sono recate presso il liceo "Galileo Galilei" di Trieste per assistere all'incontro di sensibilizzazione "Vivere e morire in carcere" relatore della conferenza lo scrittore Pino Roveredo, mentre come esperte di vita carceraria c'erano l'avvocato Monica Murru, esperta di condanne ostative, e Silvia della Branca, direttrice del carcere di massima sicurezza di Tolmezzo.

Mediante un meccanismo di botta e risposta vengono affrontati i vari temi della vita carceraria. Viene introdotto il concetto di carcere, considerato un luogo di recupero, riadattamento che garantisce attività e vita culturale molto viva. È  stata delineata la differenza tra detenzione maschile e femminile (molto più  difficoltosa da gestire a causa dei frequenti scontri verbali tra le detenute).
Si passa al concetto di ergastolo ostativo, destinato a detenuti facenti parte di associazioni a delinquere, soprattutto per i reati di stampo mafioso. “Ostativo” in quanto privo di qualsiasi  beneficio penitenziario, come permessi premio e incontri con i familiari. Per far si che la pena venga ridotta, o vengano rilasciati questi benefici, è  necessario collaborare con le autorità. E' importante inoltre verificare la condotta del detenuto e testarne l'affidabilità. La collaborazione si attua solamente se le vicende inerenti al detenuto non son giunte ad una sentenza.

Per i casi più gravi è stato introdotto il sistema 41bis, anche detto carcere duro (ad esempio per questi detenuti è  proibito telefonare, possono incontrare i familiari solamente una volta al mese, non più  di mezz'ora, in maniera blindata e sorvegliati dalle telecamere).
Prima di introdurre un vivace dibattito, ci si è  interrogati su come sia possibile difendere una persona colpevole. In questi casi è  necessario non farsi influenzare, ed utilizzare tutti gli strumenti che permettono di ridurre la pena, come il patteggiamento.

Sulla scia di queste riflessioni, si è  parlato dell'atteggiamento da adottare nel caso di detenuti in famiglia. C'è chi, categorico, sosteneva l'applicazione totale della pena e chi, invece, criticava questo atteggiamento risoluto, promuovendo il sostegno a queste persone, a maggior ragione se familiari.
A mio parere, chi provoca la morte deve essere condannato all'ergastolo, senza la possibilità di ricorrere ai vari strumenti che permettono la riduzione della pena, soprattutto l'indulto, che personalmente abolirei. Per reati minori, invece, appoggio l'idea di carcere come luogo di recupero, per permettere ai detenuti di riscattarsi e tornare alla vita in maniera dignitosa.

Dal mio punto di vista questo incontro è stato molto significativo in quanto ha dato a tutti quanti l'opportunità di conoscere meglio come sia realmente il mondo dietro a delle sbarre, nella prospettiva di una prossima visita programmata dall'istituto ad un carcere. Saper di entrare in un luogo che non si conosce mette sempre una certa soggezione ed entrare in un luogo che normalmente non è aperto al pubblico provoca sicuramente una sensazione ancor più forte, ma tuttavia, pur sapendo di dover andare realmente a visitare un carcere non ho paura, forse perché prevale in me la curiosità di vedere con i miei stessi occhi ciò di cui finora ho solamente sentito parlare.

Pensandoci bene, chi non ha un'esperienza diretta con un carcere in genere non affronta questo tipo di argomento, perché lo concepisce come una realtà lontana, totalmente al di fuori della sua quotidianità e sì...una realtà “brutta”. L'opinione pubblica tende ad etichettare i detenuti come persone 'cattive', dalle quali bisogna stare alla larga, ma pochi si fermano a pensare che tutti possiamo sbagliare prima o poi, anche chi è sicuro che con un carcere non avrà mai a che fare, perché a volte le cose sfuggono al nostro controllo. Con questo non voglio giustificare tutte quelle persone che durante il percorso della loro vita commettono degli sbagli, anzi, sono d'accordo che queste debbano pagare per i propri errori, ed è così che devono andare le cose, ma è altrettanto giusto, quando e se ci sarà il momento, offrire una seconda opportunità, una possibilità di rimediare e, magari, di ricominciare.

Alessia Valente (4 B S.S.S.)

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